5 dicembre 2012

Il saggio di profitto e il plusvalore

Calato il brusio della cronaca su queste tristi primarie della personificazione della politica, dove orde di gonzi hanno dato il peggio correndo a contendersi i cartelloni patinati di due tipi che altro non avevano da offrire se non i loro stessi sorrisi, senza aver dietro nemmeno uno straccio di programma (orrore, poveri noi, torneremo tutti quadrumani), finito ciò dicevo possiamo tornare a parlare di politica.


Per i fan del sistema economico comunista la caduta tendenziale del saggio di profitto porterà il sistema capitalistico al paradosso di un numero bassissimo di capitalisti che sfrutta l'intero genere umano. Secondo me la china è nitidamente osservabile almeno fin dai tempi di Reagan, mentre il movimento We Are the 99% del 2011 ne è una tardiva e contingente presa di coscienza.

A che serve sapere cos'è il saggio di profitto? E' cosa fondamentale, va saputa, quando ad esempio ci si interroga sul proprio orientamento ideologico, senza questa nozione non è possibile criticare il capitalismo.

Ma che cos'è il saggio di profitto? Segue la definizione:
« E' il rapporto tra il plusvalore e tutto il capitale anticipato, ovvero salari e costi dei macchinari, delle materie prime, dei trasporti ecc.»
Da qui anticipo questo assurdo, utile a capire meglio quanto segue:
« Se il capitalista desse al salariato l’intero prodotto del suo lavoro, non ne avrebbe per sé alcun profitto.»
Nell'impresa capitalistica il plusvalore non è altro che la condensazione dei mille rivoli attraverso i quali il capitalista giustifica la propria esistenza attraverso il profitto, che va inteso non solamente come l'aumento al massimo tollerabile del prezzo di vendita delle proprie merci, ma anche come contrazione massima delle spese di produzione attraverso la compressione dei costi, operata al fine di ottenere merci economicamente competitive rispetto alle aziende competitrici.

Questa contrazione delle spese di produzione, non potendo ricadere sull'acquisto dei macchinari, a loro volta merce, ed allo stesso modo ne sui materiali o sulla energia, ne sui trasporti, ricade obbligatoriamente sui lavoratori divenendo sfruttamento.

Questo sfruttamento si esplica estendendo la giornata lavorativa, oppure abbassando la retribuzione per ora di lavoro, o con una maggiore produzione delle unità di prodotto, o attraverso una maggiore automazione di processi, o una minore sicurezza dei lavoratori, e così via, ammattendo ovviamente anche variabili fra i suddetti stratagemmi.

Il plusvalore è infine quella quota parte di retribuzione tolta ai lavoratori e stornata verso il margine privato del capitalista.

Rende bene l'idea anche quest'ultimo assurdo, trovato da un mio amico sulla quinta di copertina di un tascabile Urania. Siamo nel bel mezzo di un Far West concepito in un mondo senza moneta ne baratto, un indiano va alla stazione di posta per vendere le sue pelli di castoro.

« Quante pelli mi date per queste dieci pelli?» chiede
« Ti diamo sette pelli.» rispondono da dentro.
« Ma come - protesta l'indiano - solo sette pelli? e le altre tre?»
« Sono per noi - ribattono da dentro - sennò qui che ci stiamo a fare!»

Rimuovendo l'assurdo il risultato non muterebbe, nel mondo reale in cambio delle sue pelli di castoro l'indiano riceverebbe del denaro, che sarebbe comunque insufficiente per ricomprarsi la pelli vendute.

La fine di questa ingiusta sperequazione non può essere che la socializzazione della proprietà privata dei mezzi di produzione.

E riguardo le aziende statali? perché l'assenza del profitto del capitalista non si traduce in una minore sopraffazione dei diritti del lavoratore? Domandiamoci allora fin dove abbia debordato il sistema capitalista, e come col tempo mani oscure siano riuscite a trasfigurare questi apparati pubblici, rendendoli molto differenti da com'erano stati istituiti. Un orribile ibrido, generato dal rapporto incestuoso che ha legato lo Stato al plusvalore.

hashtag
#SaggioDiProfitto

Fonte

@andreapetrocchi

Nessun commento:

Posta un commento